Intervista alla moglie Maria Pia e alla figlia Alessia, tra ricordi e impegno sociale
Dalla Parabolica appare la Ferrari 312 B numero 4, estasiante nella sua livrea rossa, ammaliante nel fragore vittorioso del suo 12 cilindri. Un braccio alzato al cielo e poi… soltanto il clamore della folla che solleva in trionfo il suo Re. Una bandiera, il nostro inno. Il 6 settembre del 1970, esattamente cinquant’anni fa, un giovanotto di Porza vinceva a Monza la sua prima gara di Formula 1 dopo essere stato campione europeo di Formula 2: era Clay Regazzoni. Fu un evento straordinario che segnò indelebilmente la quotidianità, non solo agonistica, di questo fuoriclasse. Ne abbiamo parlato, in un’appassionante intervista, con la moglie e la figlia.
Maria Pia, lei come visse quello storico risultato sul piano privato e quale ne fu l’eredità?
Cambiò tutto e niente; fino a quell’epoca mio marito aveva lavorato nella carrozzeria del padre, conducendo una vita tranquilla ed essenziale. La sua ascesa in Formula 2 con la Tecno, iniziata nel 1967 e culminata con il titolo, fu solo un antipasto a ciò che sarebbe seguito. Il passaggio alla Ferrari, invece, modificò significativamente il nostro tenore di vita, proiettandoci in un mondo costituito da una miriade di persone e impegni. Quell’ambiente ci avrebbe imposto scadenze, innumerevoli viaggi di lavoro e d’affari nonché contatti frequenti, prima mai neanche immaginati. Emotivamente, però, Clay rimase quello di sempre: un’anima semplice e schietta che, sebbene avesse vinto a Monza, aveva piedi ben saldi a terra, gradiva la compagnia degli amici e non faceva alcuna distinzione di ceto o estrazione sociale. Anche con i figli restò il genitore cui erano abituati senza che le dinamiche famigliari ne fossero troppo perturbate.
Che sensazioni le dava la notorietà? Seguiva Clay nella sua carriera in giro per il mondo?
Andavo ai Gran Premi una volta sì e una no, facendo in modo che i nostri ragazzi fossero sempre accuditi da noi, con mia madre che mi dava una grossa mano. Alla fama, col tempo, ci si fa l’abitudine. Ne vivemmo gli effetti soprattutto in Italia: il commendator Ferrari, in quegli anni, non aveva più reclutato talenti del vivaio peninsulare e quindi mio marito, grazie al cognome che portava, fu praticamente adottato come un idolo di casa, oltre che svizzero. Era un po’ il loro pilota e il bagno di folla che seguì la bandiera a scacchi, quel 6 settembre, ne fu una testimonianza incredibile. Ricordo l’enorme soddisfazione di Clay, non tanto per la vittoria ma perché (ndr. ci confessa con un sorriso) riuscì a battere Jackie Stewart.
Alessia, in un’occasione pubblica lei ha affermato: “Clay Regazzoni era un uomo che, nel vivere la vita appieno e intensamente, ha dato dignità alla vita stessa”. Quali sono i valori che è riuscito a trasmettere a lei e a suo fratello Gian Maria?
Semplicità e umiltà, virtù alle quali era radicato profondamente. Non si montò mai la testa per quello che aveva raggiunto e rimase sempre fedele a se stesso; una caratteristica comune tra quei “gladiatori” appartenuti a un’epoca nella quale non si aveva remore di mostrare umanamente e schiettamente la propria indole, senza filtri o ambiguità.
Ad esempio, si chiacchierò molto sul dualismo caratteriale di Regazzoni e Lauda ma nessuno dei due si fece mai influenzare dall’altro. Avevano approcci completamente differenti… all’automobilismo e alla vita stessa. Niki, malgrado io lo rievochi come una persona molto amabile, era più schivo, calcolatore, metodico, correva per vincere. Fu, in un certo senso, il capostipite dell’era contemporanea. Mio padre, invece, che in Formula 1 c’era arrivato quasi per caso, viveva la sua passione in maniera genuina, senza curarsi troppo della matematica; amava quel mondo costituito da fan, motori, tecnici e meccanici (con questi ultimi trascorreva molte serate in compagnia, come confermò recentemente colui che di quel team ne fu alla testa, Giulio Borsari).
Che cosa significava essere circondati dalle attenzioni riservate a un campione?
Anche se la domenica ci entusiasmava in televisione, ai nostri occhi non era un idolo, uno sportivo di successo ma, semplicemente, nostro padre. La famiglia era il luogo dove ricaricava le batterie e si godeva tutte quelle minuscole consuetudini che le mura domestiche potevano offrirgli: tranquillo, di poche parole, amava i film western (ne conosceva a memoria i dialoghi) e li guardava con noi. Gli piaceva tantissimo il risotto, le minestre, il tennis… Era sempre sui campi alla Villa Castagnola, facendo disperare mia madre che, osservandolo giocare dalla finestra, preparava la cena convinta che non avrebbe organizzato un ulteriore match (cosa che poi puntualmente faceva). Quando era a Lugano, poi, non disdegnava una partita a scopa al bar “Paciarott” perché lui stava bene con tutti.
Per quel che mi concerne, ci fu grande differenza tra la mentalità svizzera e quella italiana: a scuola nessuno ci chiese mai nulla o fece distinzioni, ma fin dalla dogana, varcando il confine, si percepiva l’incredibile attaccamento del popolo ferrarista. Ne rimanevamo stupefatti. Ricordo episodi in cui, ospiti da alcuni sponsor, i ragazzi ci portavano con loro a scuola per mostrare a tutti i “figli di Clay Regazzoni”… io mi vergognavo tanto.
Quel braccio alzato in segno di vittoria nella Monza di cinquant’anni fa è diventato una sorta di bandiera a rappresentare tutte le battaglie combattute e vinte durante la sua esistenza. Prima fra tutti, quella contro le avversità del destino. Che uomo divenne dopo l’incidente del 1980? Perché ancora oggi è considerato come un emblema di volontà e coraggio?
Lo schianto a Long Beach gli cambiò la vita: da un giorno all’altro si trovò in un letto d’ospedale, paraplegico, solo di fronte al durissimo percorso riabilitativo, perché delle migliaia di persone che conosceva, unicamente la famiglia e pochi amici gli rimasero accanto. Tuttavia, si rivelò ancora una volta un combattente: per lui i problemi erano null’altro se non piccoli incagli da cui sciogliersi e cercò con tutte le sue risorse di tornare a camminare. Fu un paziente modello e, instancabilmente, si sottopose a varie operazioni finché i medici gli dissero basta. Anche quando la speranza si spense, non s’arrese mai, cambiò semplicemente prospettiva. Fu proprio questa sorta d’impulso innato a permettergli, negli anni che vennero, d’affrontare competizioni massacranti come la Parigi-Dakar (la percorreva come fosse in Formula 1 annichilendo i navigatori che, a ogni successiva edizione, puntualmente dichiaravano la resa). Non volle che la sua paraplegia gli ponesse dei limiti e fece in modo che noi non cedessimo alla paura precludendoci aspetti importanti della vita (diceva d’essa che era fatta del nulla e che l’unica volta che ne ebbe fu quando la folla lo sollevò a Monza). Per tutto questo, non nutro pensieri negativi rispetto a quel periodo.
Clay Regazzoni si batté fermamente affinché ai portatori di handicap fossero garantiti il massimo della dignità e delle possibilità…
Malgrado la sua condizione, conduceva una vita agiata, sostenuto, amato e aiutato. Avrebbe potuto curarsi unicamente di se stesso ma quando s’accorse di questo mondo sommerso (ai tempi sostanzialmente ripudiato) in cui vivevano le persone portatrici di handicap, iniziò a rivendicarne i diritti, seguendo l’esempio dei pochi, come l’attore Chrispoher Reeve, che se ne erano fatti portavoce. Aveva in particolare insistito affinché s’iniziassero quei programmi di ricerca che, lui soleva dire, non convenivano alle lobby di settore ma che erano fondamentali per ridare un futuro a coloro che erano nella sua stessa situazione. Già nel 1984, assieme a due paraplegici svizzeri (un chirurgo e un pubblicitario), creò dunque la “Fondazione per la ricerca in paraplegia - IRP”. Grazie alla somma di tutti gli sforzi profusi da uomini come mio padre, oggigiorno anche istituzioni importanti come la Fondazione svizzera paraplegici di Nottwil destinano parte dei loro fondi allo sviluppo di nuovi approcci terapeutici che, proprio di recente, hanno dato risultati entusiasmanti.
Il Memorial Room Clay Regazzoni di Pregassona non è soltanto uno spazio nel quale omaggiare un campione e assaporane le gesta attraverso un percorso espositivo. È anche, e soprattutto, un luogo dedicato alla sensibilizzazione…
Nelle sue interviste diceva: “M’arrabbio cento volte al giorno per l’ignoranza della gente”. Con queste parole dure e schiette voleva in realtà riassumere quanto poco la società fosse educata e avvezza al mondo della paraplegia, sia nel trattare le persone in sedia a rotelle come esseri umani assolutamente normali sia nell’essere attenti alle barriere architettoniche. Lui lottava a favore della sensibilizzazione e spesso rifletteva su come la chiave del cambiamento di una società fossero i bambini; loro non esprimono giudizi, loro hanno una genuina volontà d’imparare, loro saranno gli adulti di domani con un pizzico di consapevolezza in più.
È quello che cerchiamo di fare noi qui al Memorial, con appuntamenti dedicati alla sicurezza stradale: Clay sarebbe felice di vedervi partecipare alunni sorridenti e incantati dalle vetture sulle quali sfrecciava con estro e passione verso la vittoria. Sarebbe felice di vederli ascoltare tante meravigliose testimonianze di chi, come lui, ha vissuto il dramma. Quello che ha fatto mio padre è una goccia nell’oceano ma sono sicura che il suo esempio sarà perpetuato.
Testo: Elias Bertini
Immagini: Famiglia Regazzoni